L’istroromeno (chiamato vlwaški dai parlanti) è una lingua romanza della famiglia dei “dialetti” romeni, parlata in alcuni villaggi nel nord-est dell’Istria: tra i monti della Ciceria, nel villaggio di Žeʹywan o Žiʹywan (it. Seiane), e più a sud, al di là dei monti, a Sušʹnjevitsa (it. Valdarsa) e nei pochi minuscoli villaggi o casolari circostanti, che si affacciano sulla pianura dove un tempo si stendeva il lago di Čepić. Per lo più gli alloglotti della zona chiamavano gli abitanti dei villaggi meridionali vlahi, e la loro lingua čiribiri, talvolta in senso un po’ dispregiativo (S.Puşcariu, vol. II, pag. 52; A. Dianich, pagg. XVII-XVIII; v. bibliografia): i parlanti vlwaški, però, non hanno un etnonimo per indicare se stessi, ma, forse per uno scarso senso identitario, usano i derivati dai nomi dei villaggi (per es. Sušnjevtsi da Sušʹnjevitsa) o il pronome nwoy (it. noi), e non gradiscono in genere l’appellativo vlahi. Gli abitanti della Ciceria sono noti con il nome di ćići e la loro lingua, che è una variante del vlwaški,con il nome di žeywanski.
Oggi il vlwaški è una lingua in via di rapida estinzione: dopo il massiccio esodo di istriani, fiumani e dalmati dai territori occupati dai partigiani comunisti di Tito sul finire della seconda guerra mondiale, sono rimasti in ben pochi (v. infra) i parlanti nei villaggi storici sopra citati, mentre, a sentire Ireneo della Croce (Historia Antica, e Moderna… della città di Trieste… Venezia, 1698, libro IV, cap. VII), nel secolo XVII la comunità linguistica era piuttosto numerosa in Istria: ancora agli inizi del Novecento la popolazione probabilmente era vicina alle 3000 persone.
Le ipotesi sulla provenienza di questo gruppo linguistico sono le più varie. Mi sembra convincente quella di Emanuele Banfi (Storia linguistica del sud-est europeo. Crisi della Romània balcanica tra alto e basso medioevo, Milano 1991) ed altri, secondo cui esso veniva da qualche luogo imprecisato dei Balcani, ed era arrivato in Istria sia in cerca di pascoli e campi da coltivare, sia per la pressione degli Ottomani. Con la disgregazione dell’impero romano, anche nei Balcani il latino si era frantumato, e le popolazioni che parlavano varianti locali della lingua dei Romani, con il tempo furono ridotte a quattro enclave. In questo modo si formarono i cosiddetti quattro dialetti romeni, e cioè, come è noto, il dacoromeno, l’aromeno, il meglenoromeno, e l’istroromeno. Dalle popolazioni circostanti che parlavano altre lingue, questi gruppi venivano complessivamente denominati vlahi o vlachi, con un termine di origine germanica che significa “popolo”, e nel caso specifico “popolo che parla il latino”.
In questa sede, una discussione teorica sulle differenze tra lingue e dialetti non ha senso: tuttavia preferisco considerare il vlwaški una lingua, e non un dialetto romeno. Se è vera l’ipotesi balcanica, non ci sarebbe nessun rapporto diretto con il dacoromeno; del resto, non abbiamo prove che ci siano stati contatti con il dacoromeno dai secoli XIV-XV in poi, cioè da quando sembra testimoniata la presenza di questa parlata in Istria: in così lungo periodo di tempo il vlwaški, come è naturale, si è evoluto in maniera autonoma, assimilando prestiti dall’italiano, dal croato e talvolta anche da altre lingue (per esempio, dei due termini che significano “tasse”, frwanjki denuncia chiaramente la sua provenienza dal francese, mentre 'šteure viene dal tedesco, ma è difficile dire se attraverso l’italiano “steure”, usato sin dal XVIII secolo nei territori italiani dell’Austro-Ungheria, e sopravvissuto in ladino nella forma steore).
L’istroromeno non ha una tradizione scritta, e non esiste un unico modo per trascriverlo: qui seguo, semplificandolo, il sistema che ho elaborato per il mio Vocabolario Istroromeno-Italiano (v. bibliografia) e che aveva lo scopo di rendere più agevole la lettura anche ai parlanti stessi, che conoscono, oltre alla propria lingua, anche l’italiano e il croato.
Riporto solamente i grafemi diversi da quelli dell’italiano, che ho usato in questo articolo: č (it. cielo); ć (croato kuća); ə (fr. petit); g (it. gatto); h (ingl. behind); k (it. casa); lj (it. aglio); nj (it. gnocco); š (it. scelto); ts (it. zio); y (it. ieri); z (it. rosa); ž (fr. jour).
I gruppi ea, wa, wo (con semivocale in formato piccolo), sono dittonghi ascendenti e la semivocale è flebile tanto che nell’eloquio veloce è spesso elisa.
L’accento (ʹ) precede la sillaba tonica e non è segnato sulle parole piane né sui monosillabi. La lineetta (-) serve ad unire l’enclitica alla parola precedente, creando così, ai fini dell’accento, un’unica parola.
A New York
È estremamente difficile fare una stima delle persone che ancora parlano il vlwaški nel mondo: i dati che fornirò in questo articolo derivano dalle notizie che possiedo in quanto appartenente io stesso a questo gruppo linguistico e dalle indagini che ho effettuato attraverso i miei informanti in Croazia e a New York, e devono ritenersi dati approssimativi ed ipotetici: è impossibile fare un vero censimento, che d’altronde non è mai stato fatto.
Dopo la seconda guerra mondiale, i parlanti si sono dispersi nelle più varie regioni del mondo, dall’Italia agli Stati Uniti, dall’Argentina all’Australia al Canada ecc.: se si considera quanto erano primitivi e miseri i villaggi di provenienza, può apparire certamente paradossale che oggi il sito, dove è stanziato il gruppo più numeroso, sia la ricca ed evoluta metropoli di New York, soprattutto a Brooklyn e Queens, e la zona contigua del New Jersey: si dice che questa comunità ammonti a circa 400/500 persone, ma se si calcolano solo gli anziani di prima generazione, che effettivamente parlino ancora il vlwaški, è probabile che il loro numero non arrivi a 200 persone. Quasi tutti oggi si sono fatti benestanti, ma nei loro paesi erano poveri contadini, talvolta analfabeti o semianalfabeti.
Sia in Istria sia nel mondo, prima e soprattutto dopo l’esodo, tutti parlavano e parlano, oltre al vlwaški, una o più altre lingue, specialmente italiano e croato nella variante istriana: la lingua madre, considerata di basso prestigio, si alterna alla lingua straniera secondo la necessità, rimanendo però sempre in sottordine: si tratta di un fenomeno conosciuto in sociolinguistica come di- o pluri-glossia.
Ma è pure problematico dire quanti di questi parlanti usino effettivamente almeno in casa il vlwaški. Nei contatti con gli abitanti del luogo e nei pubblici uffici naturalmente usano l’inglese: ma molto spesso l’inglese viene usato anche in casa e fra gli stessi utenti del vlwaški, perché esso è stato assimilato ed è diventato in un certo senso la vera lingua d’uso comune, costituendo così un ulteriore pericolo per la sopravvivenza del vlwaški stesso.
La situazione linguistica risulta ancora più complessa se si considerano i vari “matrimoni misti” con persone non parlanti vlwaški: normalmente il coniuge che parla vlwaški si adatta ad usare la lingua del partner: molto raramente avviene che il partner impari il vlwaški, che da sempre è stato considerato dagli stessi nativi, come ho già detto, una lingua di basso rango già nelle loro terre d’origine.
Naturalmente è difficile che i figli di queste coppie miste, nati a New York, parlino la lingua dei loro genitori: anzi, persino i figli di coppie istroromene per lo più non la parlano, anche se talvolta la comprendono: probabilmente il numero di coloro che la parlano non raggiunge la decina; la terza generazione spesso ne ignora perfino l’esistenza. Si prevede che a New York la lingua scompaia entro breve tempo, con il naturale declino della generazione dei primi migranti.
Però è da segnalare che a New York esiste ancora la possibilità, per coloro che parlano o capiscono la lingua, di mantenere i legami di lingua, di conoscenza e di amicizia tra le persone (matrimoni e soprattutto funerali sono le occasioni più frequenti per gli incontri); essi conservano anche certe consuetudini tradizionali (per esempio nella cucina), nonostante la lontananza dalla terra natale, che ormai dura da lunghissimo tempo: le occasioni per ritornare in Istria e rivedere gli ultimi parenti e amici colà rimasti, non sono molte.
È naturale che rapidamente le famiglie, sistematesi nella megalopoli, si siano impadronite, come dappertutto, della tecnologia moderna e dell’organizzazione e delle strutture di una grande città, per le quali hanno preso in prestito i termini inglesi tali e quali o acclimatandoli alla fonologia e alla morfosintassi della propria lingua. Riporto qui alcuni prestiti non mediati che ho registrato parlando con i miei parenti e amici di New York, e che mi sembrano di uso corrente: oh my God, basement, so, building, city, piecework, you know, ecc.; i nomi propri per le persone di seconda generazione nate a NY, sono spesso inglesi, come Nicholas, Alyssa, Paul, John, Jessica, ecc., secondo le mode del momento; talvolta gli stessi nomi tradizionali degli anziani venuti dall’Istria vengono tradotti, come Pepo→Joe, ecc. D’altronde anche in Istria, ai tempi dell’Italia, spesso si davano ai bambini nomi imprevedibili come per esempio Genoveffa, Guerrino, Silvio, Alma, ecc., mentre dopo la guerra si diffondono nomi croati come Davor, Mirjana, e altri.
Invece esempi di prestiti acclimatati sono: mayor>mayoru, subway>ʹsobova, box>baksa, test>test, ma plurale ʹtesture, diabetes>dayabete, elevator>liveta, ecc. È difficile dire se questi ultimi prestiti siano divenuti di uso corrente, entrando a pieno diritto nella lingua, o siano forme di idioletto di una persona o di una famiglia.
La migrazione verso New York, a dire il vero, è iniziata già prima della seconda guerra mondiale, ed è molto verosimile che qualcuno ci sia andato subito dopo la prima guerra e anche precedentemente, sebbene manchi una ricerca in questo senso: mio padre, per esempio, che era marittimo, ha lavorato da clandestino a New York negli anni 1925/’30, ed alloggiava presso un suo cugino stabilitosi in città già da prima. Durante la seconda guerra molti marittimi hanno “disertato” e sono rimasti a New York, riuscendo in seguito ad ottenere la cittadinanza, in modo da poter richiamare a sé le famiglie.
La situazione storica e linguistica del vlwaški e dei suoi parlanti a New York non è mai stata studiata: per qualche spunto v. anche il mio Vocabolario.
In Istria
La condizione della lingua è estremamente grave nei villaggi storici in Istria. Già nella prima metà del Novecento la lingua era sparita completamente da località come Leʹtay, ʹGrwadinje, ecc.: oggi i parlanti in Istria sono circa una settantina nei villaggi superstiti del sud (Sušʹnjevitsa, Sukodru, ʹNoselo, Senoʹvikda un lato, e dall’altro Bərdo e le sue frazioni, complessivamente dette ʹBəršćina), mentre a Žeʹywan la variante settentrionale dell’istroromeno, detta žeywanski, è parlata da circa una quarantina di persone. I villaggi meridionali a loro volta usano ciascuno una variante della lingua, con differenze fonetiche e morfosintattiche minime, però percepibili, mentre esse sono più marcate fra il sud e il nord, pur permettendo una discreta intercomprensibiltà. Tutti questi parlanti, però, usano indifferentemente il vlwaški e il croato.
La presenza di queste varianti, in una comunità piuttosto piccola e disgregata in villaggi anche distanti tra loro, dipende da molti fattori: la scarsa mobilità dei parlanti e quindi gli scarsi scambi linguistici specie tra gli abitanti del sud e quelli del nord, l’assenza di una lingua scritta e la mancanza di scuole in vlwaški, e conseguentemente l’assenza di uno standard; l’isolamento dipendente dalla mancanza di strade e altri mezzi di comunicazione: esisteva un’unica strada ʻbiancaʼ da Chersano a Valdarsa ed oltre, che però non permetteva di raggiungere ’Bəršćina se non per sentieri o mulattiere. Mancavano il telefono, l’elettricità e l’acquedotto che sono stati introdotti solo negli anni ‘70/’80. Sono state anche asfaltate le strade.
Oggi certamente la situazione è mutata, ma sono mutati anche gli abitanti, perché i parlanti vlwaški in maggioranza sono partiti, e molte case sono in rovina. Ma come nel 1922 il giovane maestro Andrea Glavina era riuscito non solo ad ottenere l’istituzione del “Comune di Valdarsa”, ma anche ad aprire una scuola statale in vlwaški, che però cessò dopo soli cinque anni per la morte precoce del maestro (N. Feresini, v. bibliografia), oggi Viviana Brkarić nella scuola in croato di Sušʹnjevitsa insegna ad una dozzina di scolari che lo desiderano, qualcosa della lingua dei loro nonni e antenati.
Naturalmente è possibile notare una certa differenza anche tra il vlwaški di New York e quello che ancora resiste in Istria: le due varianti hanno subito l’influenza una dell’inglese, dopo l’arrivo degli esuli negli States, l’altra del croato, da quando il territorio è passato sotto la sovranità croata. Tuttavia i controlli che ho potuto effettuare mi hanno convinto che il vlwaški di NY conservi meglio forme più vicine al vlwaški parlato in Istria prima dell’esodo, e per così dire più “autentiche”, mentre in Istria, fin dal 1945, la pressione del croato su questa lingua minoritaria senza scuole e senza scrittura è stata molto più energica che nel passato.
Nel mondo
Non ho un’esatta percezione, invece, della condizione del vlwaški in altre parti del mondo: in genere si tratta di persone o famiglie isolate, che assimilano più facilmente prestiti della lingua del luogo in cui vivono, e più rapidamente perdono la propria lingua. A Trieste vivono alcune famiglie, ma per la scomparsa dei vecchi della prima generazione e per i matrimoni con persone del luogo, la lingua viene parlata poco e accoglie un maggior numero di prestiti italiani. A Pisa viveva un piccolo gruppo di sei o sette persone che amavano parlare il vlwaški, ma sono rimasto io solo. Anche il gruppo di Fiume, praticamente sconosciuto agli studiosi, numeroso prima della guerra, è quasi scomparso dopo l’esodo.
Un testo istroromeno inedito
A titolo di esempio del vlwaški parlato a New York, e come ulteriore contributo alla formazione di un archivio di testi registrati su supporto elettronico e trascritti, pubblico qui un breve spezzone inedito di una più lunga registrazione da me effettuata nel mese di marzo 2014, seguito da una traduzione che accompagna alla lettera l’andamento del discorso dell’informante. L’informante parla la variante di ʹBəršćina. Il tema è il faticoso inizio della vita a NY.
Il Testo
Nwoy-an veʹrit ən ʹMerika ku o valiže na pwol prwazna ši ku činč dolar… dupa twot ča-n treʹkut, mware mware siroʹmwašćina. Dupa vwoyska verit-an woča se pwote ziče gwolj ši resʹkutz, ši pošʹnjit de čiya renće, ši veʹrit pira ur punet yuva-n kumpaʹrwat kwasa, ši kwasa plaʹtit de pwatru faʹmiliye, ši kumpaʹrwat čəsta kwasa yuva žiʹvin.
Maryo pošnjit-a luʹkrwa ən restaurante, ye štivut-a taliywanski dosti kaši za meare luʹkrwa, yo misʹles ke forši uri do zile spelaveyt-a piʹywatele, ma gospodwaru zwayno veʹzut-a ke ye pwote may ćwaro, ši l-a pus neka lukra salwate, ši ʹzwalika vreame mes-a šwa renće ku čwa. Ši pwokle yo nu štiv čire lj-a zis ke-n ur lwok faʹlea kogo, so farde fi kogo ye s-a priženʹteyt, ši zis-a kaši ke nu-y kogo, ma ke se tenʹdea ši ke se ra ənmeʹtzwa zwayno, ši l-a lwat za nuškət vreame čiya. Pa pwokle mes-a la ur lwok, rabit-a pitzaywolu, so mes-a koʹlo ma ye n-a svwoyni pitza faʹkut mwanće. Ma ye, tu štiyi, Maryo fost-a ši šimʹpatico, pyažeyt-l-a. Čwa vwota za luʹkrwa n-wa raʹbit šti merikwanski gaʹney, s-ay mes ən taliywanske ʹlwokure, ma ye, ya, vwalje vwalje s-a-nmeʹtzwat ʹstvwarurle č-a fost potriba. Ye pošʹnjit-a o vwota dwa letzyoni, wam inka čwale teake kwasa. Ši pwokle ye de čiya mes-a ćwa, ma veće vut-a rušire meare la gospodwaru ke gospodwaru lj-a fost dužən nušte, ši vut-a rušire-ntreʹbwa se pinez; so me čwače mes-a ši-ntreʹbwat-a ši spus-a: tunče zis-a gospodwaru de pitza kaši: “Mire mnj-a piyaʹžeyt, ma ye mnj-a čuda pinez zgoʹrit!”. Priviše spečiya! Ši čwa vwota me čwače l-a lwat ən lwoku yuva ye luʹkrwat-a, fost-a inka dwoy de yelj č-a fost kogi, yelj-a fost din Čepić, ši čiya pošʹnjit-a kaši treti kogo. Ši ala fine veʹrit-a šef.
Yo-m mes luʹkrwa ən fatoriye, mes-am la ur lwok yuva s-a paʹkeyt čiʹrišnjile-n mike ʹvwažure, maraškino čeriš, čwa pwokle se užeya kən se fačeya o bevwanda, o kən se čeʹvwa spečiya. Alora čiya veriya čiʹrišnjile ən bəčva, ywale vinju twote čwale čirišnji wabe, ma pwokle se fwače un šiʹrop de ʹnuškarlji kemikwali, ši ku tzukor. Ši čwale čirišnji mergu-n čela šiʹrop ši ywale vinju royš. Ši ča vwota se paʹkea ši se pure kuʹhey kəta vreame. Ši lukrwat-a ku mire inka o neagra, ši čiya ča neagra o zi mnj-a spus ke vware nwono nušćin, ma yo nu štiv yuva ča fost-a, nušćin ən sela, ši ke nu l-a mes veće čuda vreame veʹdea, ma ke mislit-a ke va meare ši mnj-a zis: “Štiyi, ča-y piʹrikolo, morešti kavʹtwa perʹke koʹlo-y štrige”. E yo-m ljey zis: “N-am nikad misʹlit ke voy ən ʹMerika avʹzi čwa beseada”. Ywa mnj-a zis: “No, Mariya, ye štrige, ke yuva-y me nwono nu-y ʹletrika, ywale vwaru fwortza yuva nu-y ʹletrika”. Yo-m fost šwa zečudita, miye fost-a čudno čwa avʹzi de ywa…
La traduzione
Noi siamo arrivati in America con una valigia mezzo vuota e con cinque dollari… dopo tutto quello che abbiamo passato, grande grande povertà. Dopo la guerra siamo arrivati qui si può dire nudi e scalzi, e da allora abbiamo incominciato (ad andare) avanti e siamo arrivati fino ad un punto che abbiamo comperato casa, e pagato una casa per quattro famiglie, e comperato (anche) questa casa dove viviamo…
Mario ha incominciato a lavorare in un ristorante, lui sapeva abbastanza italiano come per andare a lavorare, io penso che forse per circa due giorni ha lavato i piatti, ma il padrone subito ha visto che lui poteva lavorare meglio, e lo ha messo a preparare le insalate, e per un po’ di tempo è andato avanti così con questo (lavoro). E poi io non so chi gli ha detto che in un posto manca il cuoco, così senza essere cuoco lui si è presentato, ed ha detto come che non è un cuoco, ma che se ne intende e che avrebbe imparato subito, e lo hanno preso lì per un certo tempo.
E poi è andato in un posto, c’era bisogno di un pizzaiolo, così è andato (a lavorare) lì, ma (in realtà) non aveva mai fatto una pizza prima. Ma lui, tu sai, Mario era anche simpatico, gli piaceva. Allora per lavorare non c’era bisogno di saper parlare l’(inglese) americano se andavi (a lavorare) in locali italiani, ma lui, sì, presto presto ha imparato le cose di cui c’era bisogno. Una volta ha anche cominciato a prendere lezioni, ho ancora quei (suoi) quaderni in casa. E poi è andato via da lì, ma ormai aveva vergogna a ritornare dal padrone perché il padrone gli era debitore di qualcosa, e aveva vergogna a chiedere il suo denaro; così è andato mio padre ed ha chiesto ed ha raccontato (come stavano le cose): allora ha detto il padrone della pizza, all’incirca: “(Il ragazzo) mi piaceva, ma mi ha bruciato molto denaro!” Arrostiva troppo (le pizze)! Allora mio padre l’ha portato con sé nel locale dove lavorava, c’erano anche altri due che erano cuochi, erano di Čepić, e lì ha incominciato (a lavorare) come terzo cuoco. E alla fine è arrivato ad (essere) chef.
Io sono andata a lavorare in un laboratorio, sono andata in un posto dove si confezionavano ciliegie in piccoli vasi, ciliegie marasche, e (il prodotto) si usava poi quando si faceva una bibita, o quando si arrostiva qualcosa. Allora lì arrivavano le ciliegie in una botte, arrivano tutte quelle ciliegie bianche, ma poi si fa uno sciroppo con certi ingredienti chimici, e con lo zucchero. E quelle ciliegie vanno in quello sciroppo, e diventano rosse. E allora si chiudono i vasi e si mettono a cucinare per un certo tempo. E con me lavorava anche una (donna) nera, e lì questa nera un giorno mi ha raccontato che ha il nonno da qualche parte, ma io non so dove questo (posto) fosse, da qualche parte in un villaggio, e che non era stata già da tanto tempo a vederlo, ma pensava che sarebbe andata e mi ha detto: “Sai, è pericoloso, devi stare attenta perché lì ci sono le streghe”. Ed io le ho detto: “Non avevo mai pensato che avrei sentito in America questa parola”. Lei mi ha detto: “No, Maria, ci sono streghe, perché dove vive mio nonno non c’è la corrente elettrica, loro hanno forza dove non c’è l’elettricità”. Io rimasi così meravigliata, mi sembrò strano sentire questa cosa da lei…
Antonio Dianich
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June 1, 2014
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