Difficile dire in quanti fossero, domenica scorsa a Brdo. Certamente qualche centinaio, nuovamente insieme come decenni addietro, prima di partire, sotto il sole che picchiava nel piccolo spiazzo a lato della chiesa e con al centro il campanile. Una verlicale bianca, immacolata sul cocuzzolo, che si rivela e nasconde così come procede la serpentina che si infila tra i rilievi che fanno da sponda occidentale alla vallata di Čepić: quel candore sembra un miraggio di refrigerio nell'arsura di luglio che la campagna non riesce a smorzare. Deve apparire e scomparire, a seconda della loro posizione, anche agli abitati e ai casolari disseminati intorno, rannicchiati tra le anse dei pendii o posati sui rari tratti piani della scomposta ma dolce geografia collinare. La sua campana, dicono, era quella che si sentiva più lontano, in armonia con la posizione dominante della costruzione. Dal mio villaggio lo vedo diritto di fronte, fa Edo Smilović. È stato il coordinatore di una colletta per rimettere a nuovo il campanile, l'adiacente chiesa di San Giorgio e alcune cappelle. Oltre centomila dollari sono stati raccolti in prevalenza negli USA, a New York e a New Jersey, ma anche in Canada, Australia, Italia. Là dove vive ormai la maggioranza dei paesani di Brdo, Letai, Kostrčani, Šušnjevica, Čepić, Nova Vas, Gradinje... Borghi e poderi in origine abitati dai Cicci, Ciribiri, Istrorumeni: nomi diversi per indicare la popolazione che secoli addietro si era insediata nella vallata e sulle alture intorno. Restano adesso case diroccate e murature divorate dalla vegetazione a ricordare l'esodo.
Chi sembra invece opporsi alle devastazioni del tempo sono i Cicci convenuti all'appuntamento. C'è gente continua a frequentarsi a New York, si vede di tanto in tanto al club degli Istriani, ma per tanti è una riscoperta. Trapiantati dalla campagna alla metropoli, all'inizio quasi tutti vivevano nel quartiere Astoria, gli uomini finivano nelle cucine dei ristoranti a lavare i piatti, le donne a pulire scale e uffici, prendevano quello che gli americani disdegnavano; non erano molti coloro che avevano varcato l'Atlantico con l'esperienza di un mestiere di città. Gente laboriosa, ostinata, paziente; con gli anni scalavano qualche gradino nella scala sociale, avanzavano sul posto di lavoro; i figli, come nelle storie delle immigrazioni di tutto il mondo, andavano fatti studiare, dovevano guadagnarsi un titolo, o una qualifica e così risparmiarsi la pazienza dei lunghissimi anni di sgobbo pagati dai genitori per accedere all'american way of life. La comunità conseguentemente si è un po' dispersa, dall'Astoria ad altri quartieri, la seconda generazione ha messo su famiglia, molte volte con il coniuge dei paesi tuoi, ma naturalmente ci sono stati anche i matrimoni misti. I nipoti sono ormai indistinguibili dai loro coetanei, americani d'Istria mescolati net melting pot, il calderone etnico degli Stati Uniti. A casa in molti continuano a parlare il dialetto croato del luogo natio e i più anziani l'istrorumeno, ma le situazioni della vita e la corrente del tempo stanno inesorabilmente sfilacciando la collettività. Per cui domenica scorsa, affermano, è stata un'occasione irripetibile, mai in così tanti assieme, mai poter insieme ritrovare se stessi e gli odori, i colori, il senso della loro terra. A rinfrescare ricordi, scoprire nella fittissima rete di parentele ancora altri cugini, recuperare episodi dell'infanzia, incontrare chi ha assistito alla tua nascita, aggiungere un personaggio o un avvenimento alla saga familiare. Ma appaiono in primo luogo loro stessi impersonare le memorie di una comunità istriana che vive in America, ma la cui struttura del corpo, i lineamenti del volto, l'andatura, i gesti hanno resistito all'America. Con la forza e della lingua, con la tenacia e probabilmente la disperazione dei ricordi cristallizzati, con le eredità minute che generazioni di pastori contadini e carbonai hanno depositato in questi istriani d'America. Ma che lo sradicamento adesso minaccia di cancellare dalla geografia etnica della penisola, togliendole una componente unica irripetibile. Non è stata dunque una delle tante rimpatriate, oltre ai motivi universali degli amarcord di ogni dove questo di Brdo ha permesso di vedere dal vivo, a due passi da noi e non in Amazzonia, la persistenza e la precarietà di una distinta identità comunitaria, di secolare esistenza ma che se non succede qualcosa già domani non c'è più.
Nella circoscrizione di Šušnjevica vivevano ancora nel 1946 millecinquecento anime, ora saranno circa cinquecento. Il comune è quello di Kršan, 3500 abitanti, 125 chilometri quadrati, il secondo per grandezza nella penisola. Per l'occasione è stata asfaltata la stradina che si arrampica sul colle di Brdo. Che, si sa, vuol dire monte, ma la toponomastica italiana chiamò Briani. Il sindaco Leonardo Fable e il presidente di giunta Josip Kontuš spiegato che il è il più ricco in Istria in quanto a monumenti culturali dal XII al XIV secolo. È stato appena pubblicato un elegante depliant bilingue, in croato e italiano. E gli istrorumeni dove li vogliamo mettere, tra i monumenti da salvare o tra quelli da abbandonare? C'è un circolo istrorumeno in Italia ma non vi sono contatti. E l'iniziativa partita due anni fa proprio da Šušnjevica? Mari e monti, poi niente, inoltre volevano politicizzare. Il comune allora? Questa è una lingua di casa, di famiglia: tenteremo di registrare la parlata, gli usi. Si interessa anche Bucarest. La scorsa primavera è venuto l'ambasciatore Constantin Gildă, una decina di giorni fa il console Aleksandar Rus, promettono di aiutare.
Due intellettuali tre teorie, capita anche quel giorno. E sono almeno due contrastanti interpretazioni: secondo una i Ciribiri provengono dalla lontana Dacia, per l'altra si tratta di una popolazione dinarica che niente ha da spartire con i romeni. Quelle erano storielle dei tempi bolscevichi, buona scusa per mangiate di pesce a Brioni, a tavola Tito e Ceaușescu. Il concerto delle Cicale fa da indifferente colonna sonora. Nel caldo torrido l'ombra degli alberi e gli ombrelloni non basta. A celebrar messa è il vescovo di Parenzo, da Fiume è venuto il Coro dei Salesiani. I festeggianti festeggiati parlano tra loro in ciribiri, croato, italiano, inglese. Ive è anche Giovanni, Giuseppe pure Josip e anche Pepić. Kršan ovviamente Chersano, Nova Vas chiaramente Villa Nuova, Čepić è in accoppiata con Felicia. C'è chi ritorna ogni anno, ora che è in pensione, rimane per qualche mese e dà una mano per rimettere in sesto la vecchia casa, in qualche frazione c'è ancora la strada bianca e l'acqua dal pozzo, ma ci si è abituati, cinquant'anni fa. Accanto al campanile una grossa betulla dai rami monchi ma dalla folta chioma, a detta del parroco Zorić ha almeno 300 anni, cinquecento azzarda un paesano. Comunque più vecchia del campanile bicentenario, ma meno delle strutture più antiche della chiesa, dieci secoli di età. È destinata a sparire questa singolare etnia del microcosmo istriano? Così come scompaiono le cosiddette lingue minori, le tribù, le differenze che diventano poco importanti e troppo costose... La loro è una storia di oppressioni, sostiene lo psichiatra col le radici del posto, tendono alla depressione, alla malinconia. Tantoché hanno finito per assimilarle come un tratto della loro identità, un'identità in negativo. Le stratificazioni di linguaggi, nomi e cognomi con cui sono stati coperti nei tempi finora non sono riuscite a soffocarli, e nessun ristorante di Brooklyn è stato capace di modificare quei volti e quei gesti. Ma adesso? Hanno un futuro questi totem viventi, ormai punti di riferimento soltanto a sé stessi e pochialtri?
Quel giorno a Brdo si mangiava čevapčići, si beveva birra e Coca Cola, è sparito anche un portafoglio. Qualcuno ha detto di aver visto uno zingaro. Sarà vero? Domenica prossima, domani, l'appuntamento è per un'altra chiesa restaurate, quella di Šušnjevica. O Susgnevizza, o Valdarsa. Poi sarà un altro giorno.
Ezio Mestrovich
July 25, 1998
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